A un anno dalla scadenza meno del 3% delle strutture è pienamente operativo.
Manca un anno alla rendicontazione finale della riforma sanitaria del Pnrr: a giugno 2026 tutti i fondi europei non utilizzati andranno infatti persi. La Fondazione Gimbe ha quindi compiuto un monitoraggio per verificare lo stato di avanzamento dei lavori, e sebbene le strutture fisiche abbiano ricevuto la priorità tutto il resto è ancora molto indietro.
Per il periodo 2021-2025 tutte le scadenze e gli obiettivi sono stati raggiunti ma ci sono disparità regionali molto grandi, con solo tre Regioni e una Provincia autonoma a garantire in tutti i loro distretti i servizi previsti. Il problema più grande però è l’assistenza territoriale, che è stata riformata con il Decreto 77 del 2022: una riforma che, secondo Gimbe, “procede a rilento con forti diseguaglianze tra le Regioni, in particolare nell’attivazione e nella piena operatività delle Case della Comunità e degli Ospedali di Comunità”. La riforma prevede infatti che queste strutture divengano dei punti di cura intermedi fra gli studi dei medici di famiglia e gli ospedali, in modo da alleggerire la pressione sui pronto soccorso. Perché ciò avvenga, però, è necessario che non ci siano solo le strutture fisiche ma anche i fondi per la loro gestione, e soprattutto medici e infermieri che vi lavorino. La priorità finora è stata data alle strutture e i cantieri sono andati avanti speditamente, ma per quanto riguarda i servizi offerti la situazione è pessima. Per più del 60% di tutte le strutture ad oggi le Regioni non hanno dichiarato attivo neanche un servizio tra quelli previsti, e solo in 485 (il 28,2%) ce n’è almeno uno. Se poi si restringe il perimetro alle sole strutture dove sono attivi tutti i servizi obbligatori e vi è presenza sia di infermieri che di medici il numero scenderebbe a 46 – meno del 3% del totale.
Il problema principale, quindi, è che mancano quei professionisti che sono essenziali perché Case e Ospedali di Comunità possano funzionare davvero, e se per entrambe le categorie è necessario rendere la professione più attrattiva per i medici di famiglia la situazione è lievemente diversa. Questi ultimi hanno infatti già dato la loro disponibilità a prestare servizio nelle Case di Comunità con l’ultimo contratto di categoria: il nodo da risolvere è come coniugare la loro attività attuale e questa nuova funzione senza stravolgere né il loro ruolo né la loro posizione lavorativa. La parola chiave è quindi concertazione, perché tramite gli Accordi Integrativi Regionali è possibile raggiungere una soluzione che vada nell’interesse di tutti.
I medici di famiglia sono aperti e pronti al confronto con gli enti regionali, come in Toscana si è fatto e si sta ancora facendo, per migliorare i servizi sanitari di loro competenza e l’efficienza dell’assistenza territoriale: altrimenti il rischio concreto, come sottolinea anche la Fondazione Gimbe, “è ‘portare i soldi a casa’ senza produrre benefici reali per cittadini e pazienti […] a fronte di un indebitamento scaricato sulle generazioni future”.
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