L’approfondimento di Gabanelli insiste con una narrazione parziale e offensiva
A tre mesi dall’ultimo intervento incendiario sulla medicina generale il “Dataroom” di Milena Gabanelli torna su una “imminente” riforma dei medici di famiglia, dipingendo il loro passaggio alla dipendenza del Servizio Sanitario Nazionale come soluzione praticamente obbligata e definendo come “bugie” le affermazioni in merito fatte dal principale sindacato di categoria. Ma al netto dei toni decisamente irricevibili, è davvero tutto così semplice?
Innanzitutto un dato oggettivo: la riforma che Gabanelli avrebbe visto in anteprima tre mesi fa, e che ora sarebbe “pronta”, al momento non esiste perché non c’è un testo ufficiale sul quale discutere. L’intero dibattito si sta svolgendo sulla base di “indiscrezioni”, voci di corridoio e ipotesi che sembrano lanciate per sondare il terreno. Come dichiarato dall’Assessore toscano alla Salute Simone Bezzini, infatti, “ […] il governo non ha presentato nessuna riforma sui medici di famiglia da discutere con le Regioni e con le organizzazioni sindacali della medicina generale. […] La Regione Toscana si sta attrezzando perché non possiamo stare ad aspettare gli esiti di una discussione nazionale molto confusa”. L’articolo del “Dataroom” prosegue poi facendo una disamina degli ultimi 15 anni per reiterare un solo punto, e cioè che i medici di famiglia avrebbero sistematicamente mentito per resistere a ogni tentativo di riforma – e questo a danno dei pazienti. Parole decisamente gravi se si considerano alcuni dati curiosamente non citati nell’articolo: ad esempio la legge Balduzzi del 2012, che ha istituito il lavoro di gruppo dei medici in Aft e Case della Salute, è in effetti entrato in vigore solo dopo anni, ma perché le Regioni non hanno preparato per tempo gli Accordi Integrativi Regionali, ed è per lo stesso motivo che il contratto nazionale 2016-2018 è stato firmato solo nel 2022. Ad ogni buon conto oggi il lavoro di gruppo è realtà per in media il 70% dei medici di famiglia italiani, come non può non notare l’articolo stesso.
Quelle che Gabanelli chiama poi “bugie” sono semplici prese di posizione, ovvero la prerogativa principale di ogni organizzazione sindacale: con il passaggio alla dipendenza il diritto di scegliere il proprio medico di famiglia si perderebbe e questo è un dato di fatto, perché quando ci si reca in ospedale non si ha il diritto di sceglierlo e lo stesso succederebbe nelle Case della Comunità. Non è una “mobilitazione ancora più bugiarda” affermare che c’è il rischio che i cittadini vedano allontanarsi il loro medico se ci sarà una Casa della Comunità ogni 30mila abitanti, se si considera il numero sterminato di piccoli comuni e frazioni del nostro Paese, e non è mentire affermare che la dipendenza rischia di far saltare il Servizio Sanitario se non si considerano i costi dell’attività dei medici di famiglia (studi, strumenti informatici, utenze, collaboratori) che andrebbero in capo alla collettività. Non si può spacciare come panacea una riforma che allo stato attuale poco più di uno slogan accattivante senza considerare fattori come inquadramento contrattuale, sostenibilità finanziaria, sostenibilità pensionistica, prossimità dell’assistenza territoriale e – soprattutto – lo stato di salute di una professione sempre più snobbata dai giovani laureati. Questi non sono dettagli, ed esprimere un parere contrario o scettico non può essere etichettato come “mentire”. Se le Case della Comunità alla fine “resteranno scatole vuote”, come scrive Gabanelli, una domanda è d’obbligo: sarà colpa dell’immancabile “casta” dei medici, come par proprio dire il “Dataroom”, o di una politica incapace di capire che senza un’adeguata pianificazione, e una concertazione e un dialogo costanti con i professionisti, poco conteranno per i cittadini le cerimonie di inaugurazione dei cantieri sui media?
(Photo credits: Cottonbro Studio/Pexels)
